GENOVA- La sentenza della Suprema Corte, che si riunirà il prossimo 10 gennaio, sarà decisiva per la sopravvivenza di 26 strutture portuali turistiche fra le maggiori del Paese. Oggetto del contendere è l’applicazione della normativa sulle concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, che ha modificato a posteriori i termini dei contratti firmati dagli investitori con lo Stato, che prevedevano per i marina una specifica legislazione riconoscendo gli ingenti investimenti connessi alla realizzazione di queste opere e la differente natura dello stesso titolo concessorio rispetto a quello delle concessioni balneari. In particolare la sua applicazione retroattiva ha reso indispensabile il ricorso alla Corte Costituzionale poiché sembra violare le norme costituzionali a difesa della iniziativa economica.
Dopo la tassa Monti – cancellata perché a fronte dei 22 milioni di euro incassati ha prodotto un buco di 800 milioni nelle casse dell’erario causato dalla fuga di 40.000 imbarcazioni – questa rischia di essere una nuova mazzata per tutta la filiera della nautica, che proprio negli ultimi mesi sta uscendo da una grave crisi durata sei anni. Questa situazione ha causato un contenzioso legale decennale che fino ad ora ha sempre visto vincere i porti turistici – nelle diverse sedi civili e amministrative – e che il Consiglio di Stato, confermando le ragioni dei ricorrenti, ha rinviato alla Corte Costituzionale, la quale si pronuncerà il prossimo 10 gennaio.
L’impatto economico
Da un lato c’è un costo stimabile in 3,6 milioni per lo Stato, spiccioli per il bilancio, dall’altro un danno per l’erario di 54 volte maggiore. Le imprese della portualità turistica che hanno impugnato l’applicazione retroattiva della nuova normativa sui canoni demaniali sono 26 per 15.000 posti barca complessivi: 10 sono le strutture più piccole, da 100 fino a 500 posti barca, 16 quelle maggiori da 501 a 980 posti barca. Gli aumenti annui dei canoni demaniali vanno da 45.000 a 75.000 euro, per le strutture della fascia minore, e da 100.000 a 250.000 euro annui per le strutture più grandi. Il gettito che l’erario può ottenere è pari a 3.595.000 euro l’anno. Infatti, secondo i dati dell’Osservatorio Nautico Nazionale (ente di rilevazione, studio e monitoraggio del diporto nautico riconosciuto dal Ministero dei Trasporti), l’indotto economico a rischio è pari a 185 milioni di euro, somma che si ottiene moltiplicando l’indotto medio annuo di 12.300 euro generato da ciascuna unità per i posti barca che sono interessati dalla vicenda. Inoltre, sempre secondo l’Osservatorio Nautico Nazionale, in media un marina turistico genera un indotto occupazionale di 92 unità, dunque in discussione c’è la sopravvivenza di 2.484 posti di lavoro, che contando il solo l’incasso diretto del fisco valgono circa altri 4 milioni di euro.
I rilievi del Consiglio di Stato
La Legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006) ha disposto l’applicazione dei criteri previsti per le concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, abrogando la precedente normativa applicata ai marinas (contenuta nell’art. 10, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), che prevedeva un meccanismo di calcolo informato a criteri incentivanti per gli investimenti con canoni inversamente proporzionali al valore degli investimenti.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che i rapporti concessori relativi ai porti turistici devono essere regolati dalla concessione, perché il canone è fissato dall’atto concessorio “tenendo conto dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento” e che la concessione:
– dispone il pagamento di un canone “ad aggiornamento annuale ai sensi della vigente normativa”,
– prevede che il concessionario dovrà ultimare l’esecuzione delle opere che è obbligato a costruire entro un periodo determinato,
– prevede investimenti complessivi per decine di milioni di euro,
– alla cessazione della concessione, anche per rinuncia, le opere erette, complete di tutti gli accessori e le pertinenze, resteranno “in assoluta proprietà dello Stato senza che al concessionario spetti alcun indennizzo”
– in applicazione della nuova normativa, nella durata della concessione l’importo totale dei canoni a carico del concessionario aumenterebbe di circa cinque volte e, visto il margine complessivo dell’iniziativa previsto dal piano economico-finanziario approvato in sede di rilascio della concessione medesima, ciò renderebbe il margine negativo per diversi milioni di euro.
Nel rilevare la sostanziale diversità tra le concessioni balneari e quelle relative alla realizzazione e gestione di strutture per la nautica da diporto, il Consiglio di Stato ha inoltre evidenziato che:
– le concessioni turistico-ricreative sono in numero molto più elevato e comportano di regola investimenti modesti a carico del concessionario e sono caratterizzate da canoni irrisori, su cui il legislatore è intervenuto nel 2006 per riallinearli con i valori di mercato
– le concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture per la nautica da diporto sono in numero molto minore, richiedono investimenti ingenti per la realizzazione delle opere strutturali, che saranno poi acquisite gratuitamente dal demanio, e che, per l’impegno gestionale, richiedono un piano di equilibrio economico-finanziario di lungo periodo
– il criterio di fissazione dell’importo del canone, individuato all’atto della concessione, è un elemento determinante del piano economico-finanziario definito tenendo conto della rilevanza degli investimenti.
– la normativa in questione, applicata alle concessioni in corso, appare violare l’art. 3 della Costituzione per il duplice profilo del trattamento uguale di situazioni disuguali e della lesione del principio della sicurezza giuridica costitutivo di legittimo affidamento.
– c’è anche una possibile violazione del principio del legittimo affidamento ingenerato nei concessionari sulla stabilità dell’equilibrio economico-finanziario di lungo periodo.
l’applicazione alle concessioni in corso potrebbe ledere il rispetto all’art. 41 della Costituzione relativo alla libertà di iniziativa economica, poiché recante l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali modificando gli elementi costitutivi dei relativi rapporti contrattuali in essere.